Nobili e popolani

Come nella maggior parte delle città della prima età moderna, anche a Venezia gli abitanti si identificavano strettamente con la zona in cui vivevano. Sebbene, allora come oggi, Venezia fosse divisa in sestieri (San Marco, San Polo, Santa Croce, Dorsoduro, Cannaregio, Castello), quest’area era troppo vasta per essere particolarmente significativa per la maggior parte dei veneziani. Era invece la parrocchia, e forse anche il microcosmo del cortile, che contava di più. Quando si chiedeva di descrivere il luogo in cui si viveva, la gente annotava la propria chiesa parrocchiale e qualche altro elemento identificativo; a volte si trattava del nome di una strada o di un ponte, ma spesso si trattava di “vicino alla casa della” famiglia nobile locale. Molti dei palazzi delle famiglie nobili avevano un ingresso frontale ad acqua e un accesso pedonale posteriore; quest’ultimo era spesso affacciato su un piccolo cortile o campo, affiancato da case e condomini più piccoli o più modesti. Anche questi ultimi erano spesso di proprietà della famiglia nobile e affittati ai popolani. Anche se la vicinanza non portava certo a una socializzazione significativa, sfociava nella familiarità e tutti gli abitanti del cortile si conoscevano probabilmente tra loro.
La famiglia nobile del grande palazzo non avrebbe considerato i vicini amici, ma spesso accettava il ruolo di patrono, intercessore o fornitore di aiuti. Ciò è talvolta evidente nelle storie raccontate durante i processi penali, in cui i veneziani spiegano il funzionamento del loro quartiere o raccontano come sono arrivati in tribunale con la loro particolare denuncia.
Ad esempio, nel 1735 una giovane donna di nome Santina Badoer denunciò al Tribunale della Bestemmia di essere stata sedotta con promessa di matrimonio da Giovan Battista Poloni. Prima di rivolgersi al tribunale, cui in genere si ricorreva come ultima risorsa, la famiglia della donna aveva tentato altri metodi per convincere l’ex amante a sposarla come aveva promesso. La zia si era rivolta a un nobile locale, Zuane Balbi, chiedendogli di intervenire. Su sua richiesta, Balbi si era recato da Poloni, accompagnato da un sacerdote vicino di casa, ed era riuscito a fargli ammettere le sue malefatte. Non riuscirono però a convincerlo a fare la “cosa giusta”. Anche un altro nobile, Domenico Molin, fu coinvolto su richiesta di un parente di Santina. Era un giudice dei Signori di Notte al Criminal, un altro tribunale penale. Convocò Poloni nel suo palazzo, gli comunicò che era obbligato a sposarla e, quando Poloni rimase provocatorio, lo mandò via dicendogli di rivedere la sua posizione. Una seconda convocazione non riuscì a far cambiare idea a Poloni. Pur non potendo risolvere il problema privatamente, sia i nobili che il sacerdote testimoniarono nel processo che Santina fu infine costretta a intentare, e Poloni fu condannato a un anno di prigione o a cinque anni di esilio, con il rilascio subordinato al matrimonio con la donna o alla fornitura della cospicua somma di 300 ducati per la sua dote.
Celeste McNamara
Bibliografia:
Romano, Dennis. Patricians and Popolani: The Social Foundations of the Venetian Renaissance State. JHU Press, 1987.
