4. L’angolo delle Carampane

Il commercio sessuale e lo Stato

A partire dal Trecento, il governo di Venezia legalizzò la prostituzione, con alcune limitazioni. La prostituzione, ovviamente, esisteva da lungo tempo prima che queste politiche prendessero effetto; la legalizzazione fu il riconoscimento del fatto che la prostituzione si svolgeva e che il controllo del governo era vantaggioso in vari modi. Lo scopo era che lo Stato guadagnasse un profitto, che tenesse la prostituzione isolata in una zona particolare al fine di controllare il potenziale disordine e permettere alle “persone oneste” di evitarla, che prevenisse quelli che erano visti come gravi errori morali (come lo stupro e il sesso omosessuale) e che fornisse una certa protezione alle donne che lavoravano in questo settore.

Per raggiungere questi obiettivi, all’inizio del Rinascimento lo Stato designò una zona particolare, vicino al mercato di Rialto, come unico luogo legale per la prostituzione, e vi istituì bordelli gestiti dallo Stato. Questa zona fu scelta perché era convenientemente vicina al mercato di Rialto, dove si potevano trovare molti clienti, stranieri e locali, ma non era così centrale da essere facilmente individuata. La zona legale originaria non è nota con certezza, ma molto probabilmente si trovava nella parrocchia di San Matteo, a ovest del ponte di Rialto. Nel giro di un secolo, tuttavia, il governo aveva allentato un po’ le restrizioni e aveva permesso che le case della parrocchia di San Cassiano, di proprietà della famiglia Rampani, fossero affittate come sedi di bordelli. Ben presto il commercio sessuale legale si concentrò qui, nella zona nota come Stue, dove si trovava il famoso (nonché famigerato) Ponte delle Tette. Nel Seicento le norme vennero ulteriormente ammorbidite e ora le professioniste del sesso potevano vivere quasi ovunque, con l’unica restrizione di non poter abitare sul Canal Grande o in case che si affittavano per più di cento ducati all’anno (il che avrebbe significato una casa molto bella e grande). Le singole professioniste del sesso potevano anche lavorare in modo indipendente, ma la legge che vietava tutti i bordelli tranne quelli di proprietà dello Stato rimaneva in vigore.

Sebbene la preoccupazione principale dello Stato fosse il controllo e il profitto, alcune regole dimostravano anche una relativa preoccupazione per la sicurezza e il benessere delle professioniste del sesso. Il pappone era rigorosamente vietato (e severamente punito) e nei bordelli gestiti dallo Stato le donne erano favorite per i ruoli dirigenziali. Le gestrici dei bordelli potevano ovviamente sfruttare e maltrattare le professioniste del sesso, ma sono molto più numerosi i casi di presunti abusi compiuti da ruffiani maschi, come venivano chiamati i papponi. Verso la metà del Settecento, quando il lavoro sessuale era molto più diffuso in tutta la città, vediamo una nuova interessante legge che prende di mira i padroni di casa sfruttatori, che subaffittavano le case alle professioniste del sesso con affitti giornalieri esorbitanti, oltre a far pagare eccessivamente cose come arredi, vestiti e biancheria. Un trasgressore di questa legge, nel 1749, fu bandito per ben vent’anni da Venezia e da tutti i suoi domini.

Celeste McNamara

Bibliografia:

Clarke, Paula C. “The Business of Prostitution in Early Renaissance Venice.” Renaissance Quarterly 68, no. 2 (2015): 419–64.

Scarabello, Giovanni. Meretrices: storia della prostituzione a Venezia tra il 13. e il 18. secolo. Venice: Supernova, 2006.

Weddle, Saundra. “Mobility and Prostitution in Early Modern Venice.” Early Modern Women 14, no. 1 (2019): 95–108.