Vita da osteria

Venezia era un centro di commercio e turismo, che richiedeva una vivace industria dell’ospitalità. Lo Stato cercò di controllare il più possibile questa industria, principalmente limitando l’ubicazione e il numero delle locande, chiamate osterie. In città ce n’erano circa venti, metà a Rialto e metà a San Marco, ma potevano essere piuttosto grandi, occupare diversi piani e offrire da dieci a trenta camere per i viaggiatori.
Le restrizioni sull’ubicazione e sul numero dei locali avevano un duplice scopo finanziario e contribuivano anche al mantenimento della sicurezza dello Stato. Lo Stato guadagnava denaro tassando il vino servito nelle osterie, e un numero limitato di locali raggruppati rendeva più facile la riscossione di questa tassa. Le stesse limitazioni proteggevano anche gli interessi commerciali dei nobili che affittavano agli osti gli edifici di loro proprietà, un affare redditizio. Infine, queste restrizioni rendevano più facile per lo Stato monitorare e controllare il movimento degli stranieri.
Tecnicamente, le osterie dovevano servire solo gli stranieri, che dovevano registrarsi presso le autorità e possedere un bollettino. I proprietari erano tenuti a segnalare quotidianamente gli arrivi e le partenze dei loro ospiti e potevano incorrere in sanzioni pecuniarie se venivano trovati ad accogliere ospiti senza bollettino. I locandieri avevano anche l’ordine di espellere le professioniste del sesso e i veneziani che potevano entrare per bere o mangiare. In realtà, però, mentre i tribunali erano interessati agli ospiti stranieri non registrati, raramente indagavano sulle osterie che servivano gente del posto, che permettevano l’ingresso di professioniste del sesso o che permettevano il gioco d’azzardo nei locali, a meno che non venissero segnalati altri disordini.
È chiaro, tuttavia, che i tribunali erano consapevoli che le osterie potevano essere luoghi di disordine. A volte i criminali accusati venivano arrestati in osterie che erano note per la loro frequentazione. Altre volte, l’osteria figurava nell’accusa o nel resoconto di un crimine. Nel 1749, ad esempio, un barcaiolo di nome Gerolamo Canella fu accusato di aver abbandonato la famiglia e di aver trascorso tutto il suo tempo nelle osterie con le prostitute. In un caso più drammatico del 1743, un uomo di nome Girolamo Ongaro fu accusato di diversi crimini commessi nel Do Spade: a quanto pare, gestiva una gestiva partita di carte e faceva il pappone a una giovane donna di nome Antonia, che aveva sedotto con una falsa promessa di matrimonio e poi costretto ala prostituzione. È interessante notare, tuttavia, come i tribunali sembrassero disinteressarsi al ruolo svolto dalle osterie: sebbene sia Canella che Ongaro, in quanto locali, sarebbero dovuti essere allontanati, così come le professioniste del sesso da loro protette o vendute, il tribunale si occupò solo degli uomini e lasciò in pace le osterie. Canella fu condannato a tre anni di esilio, mentre Ongaro avrebbe trascorso due anni in una cella con finestra (una pena più mite di una condanna a una cella buia).
Celeste McNamara
Bibliografia:
Bernardi, Teresa, and Matteo Pompermaier. “Hospitality and Registration of Foreigners in Early Modern Venice: The Role of Women within Inns and Lodging Houses.” Gender & History 31, no. 3 (October 2019): 624–45.
Salzberg, Rosa. “Spaces of Unrest? Policing Hospitality Sites in Early Modern Venice.” In Popular Politics in an Aristocratic Republic: Political Conflict and Social Contestation in Late Medieval and Early Modern Venice, edited by Maartje van Gelder and Claire Judde de Larivière, 105–28. London: Routledge, 2020.
